In memoria di Carlo Tassi

Terzo ed utlimo appuntamento della riedizione degli scritti e ricordi tratti dal Catalogo “In cerca di un personaggio, Carlo Tassi” a cura di Mara Vincenzi-Tassi, edito dalla Liberty house, Ferrara nel 2013. Libro catalogo edito per celebrare l’80° anniversario della nascita dell’artista e accompagnare la prima mostra retrospettiva a lui dedicata presso la Pinacoteca Civica di Bondeno, 5 ottobre 3 novembre 2013


IN MEMORIA DI CARLO TASSI di Lucio Scardino

66103Questa pubblicazione voluta dalla vedova Mara in ricordo del pittore e scultore Carlo Tassi ha avuto un’articolata gestazione: inizialmente infatti doveva limitarsi a raccogliere l’inedito racconto che nel 1988 gli aveva dedicato l’amico scrittore Giancarlo Sitta, vedendo la luce nel maggio 2013, in occasione dell’ottantesimo genetliaco dell’artista, che egli purtroppo non aveva potuto festeggiare.

Ma il progetto iniziale – anche in virtù delle richieste da parte dei suoi numerosi estimatori – si è trasformato nell’allestimento presso la Pinacoteca Comunale di Bondeno della prima mostra retrospettiva dell’artista, scomparso nel dicembre 2011 dopo lunghe sofferenze.

Il veder dipanare opere (una trentina) sulle pareti del museo e nei files della tipografia mi ha suscitato infiniti ricordi, nel segno di una frequentazione che è iniziata negli anni Settanta, sviluppandosi in modo intermittente sin quasi agli ultimi suoi mesi di vita.

La nostra amicizia era nata nel 1979, allorquando gli dedicai un articolo apparso a novembre sulla rivista “Scena Illustrata” di Firenze, della quale ero giovane corrispondente: il pretesto era costituito da una sua mostra personale allestita presso la galleria “Pomposiana” di via Borgoleoni a Ferrara.

La pur breve recensione gli piacque anzitutto poiché avevo tentato di “storicizzarlo”, inserendolo nella tradizione del paesaggismo nostrano del Novecento.

Il pezzo esordiva difatti in questo modo: “i paesaggisti del ‘900 ferrarese sono stati molteplici. I filari di pioppi, la profondità della pianura, l’ambiente brumoso delle valli, il caldo colore delle case estensi sono stati ripresi sulla tela da decine di pittori locali. I più famosi restano forse Augusto Droghetti, Alberto Pisa, Nicola Laurenti, tutti e tre di inclinazione “romantica”, il “neo-impressionista” Giorgio De Vincenzi, Mario Capuzzo, caposcuola del gruppo “pomposiano” e il bondenese Galileo Cattabriga.

71101Quest’ultimo nel 1966, incoraggiando un giovane pittore suo compaesano, Carlo Tassi, così gli scrisse: “… finalmente, in questi paesaggi, con alberi e alberi, con tutti quei rami nudi, scheletriti, con quei cieli dai toni bassi, dipinti con rudezza e con quella semplicità che fa pensare a certe reminiscenze di fiammingo, se qualcuno ti segue con attenzione, deve constatare che tu non hai mai ceduto, per essere di moda, alla facile forma-non forma, voglio dire alla maniera dei tanti seguaci dell’astrattismo..”

Nella casa-museo di Scortichino, con la quadreria di pittori antichi e moderni iniziata dal padre Gaetano, valente pittore e restauratore (immortalato da Mario Soldati nella bellissima prosa “I colori di Bondeno” del 1955) io e Tassi ci ritrovavamo per discutere della sua arte e di quella dei suoi predecessori, all’infuori di ogni sterile egocentrismo: parlammo a lungo del bondenese novecentista e “futurista” Gaetano Sgarbi, dei fratelli Longanesi, dell’inquieto Tagliaferri e Carlo mi stimolò ad occuparmi del pittore Antonio Bondeno, vissuto nel XIX secolo a Bondeno e a Roma.

Nella suggestiva abitazione da lui progettata a ridosso dell’Argine Diversivo, tra pareti fitte di quadri dalla forte accentuazione chiaroscurale, le nostre conversazioni sull’arte ferrarese erano davvero stimolanti: il suo sguardo era apparentemente burbero, con quella sua aria da barbuto “lupo di mare”, ma la sua profonda conoscenza dell’argomento e l’ironia sagace, pronta a sdrammatizzare e nel contempo a render brillante qualsiasi argomento, me lo rendevano interlocutore particolarmente piacevole.

08301Quindi, Carlo mi chiese di stendere una sua biografia critica che doveva corredare una monografia edita dall’editore bresciano Magalini nel 1982: i miei “cenni biografici” gli piacquero al punto che li ripubblicò in vari cataloghi e dépliants, da quello della mostra presso la galleria “Abba” di Brescia nello stesso 1982 alla retrospettiva presso il Centro Culturale Polivalente dl Comune di Vigarano Mainarda nel 1990.

Nel testo predetto, dopo aver ricordato i suoi maestri (dal padre ai docenti presso l’istituto d’arte “Dosso Dossi” di Ferrara e poi all’Accademia di Belle Arti a Bologna), rilevavo che negli anni ’50 la sua produzione era contraddistinta da una ricerca binaria, sia dal punto di vista tecnico che stilistico.

Da un lato, cioè, Carlo eseguiva dipinti ad olio che nella loro sintesi postimpressionista molto si avvicinavano alla poetica del grande de Pisis, pittore da lui assai amato (di cui ricordava ancora con tenerezza i funerali che si tennero a Ferrara nel 1956) e che a Bondeno aveva avuto intima rispondenza nell’opera dell’amico Cattabriga. Basti pensare soltanto ad un quadretto “tassiano” nella mia collezione con la raffigurazione, a suo modo intelligentemente neo-guercinesca, della coltivazione della canapa, di poco precedente al suo soggiorno parigino dl 1957, quando egli si innamorò di Cezanne e Rouault.

Contemporaneamente Tassi si dedicava alla scultura, sulla scia del maestro ferrarese Giuseppe Virgili: piccole e grandi composizioni in cotto e in scagliola dalla sapida connotazione materica, ad un tempo robusta e granulosa, quasi “picchiettata” in superficie.

A cavallo tra gli anni ’50 e ’60 è quindi da segnalare una sua forte evoluzione in chiave astrattista: questo periodo è circoscritto entro un lustro durante il quale l’artista bondenese, sollecitato dal dinamismo di maestri quali Spazzapan e Vedova, elaborò una visione estetica dalla rigorosa scomposizione informale.

In quegli anni Carlo inizia inoltre l’attività di insegnante, dapprima scuole medie di Bondeno, dove ebbe quale collega lo scrittore Gianfranco Rossi e fra i numerosi allievi il talentuoso adolescente Gianni Cestari; quindi per sette anni fu docente nell’istituto d’arte di Guidizzolo (Mantova), diretto dall’eccellente pittore Alessandro Dal Prato.

Una data fondamentale per la biografia è costituita dal 1963, giusto mezzo secolo fa e che coincide con la sua prima personale, allestita presso il Palazzo Municipale di Bondeno: quell’anno Carlo inizia la “ricerca” che diventerà la sua caratteristica più peculiare e dominante nel suo operare artistico, in pratica sino ai suoi ultimi anni di vita.

Partendo dallo studio della sintassi “tenebrista” di maestri secenteschi, soprattutto Caravaggio e Rembrandt, Carlo recupera le loro suggestioni visive, raffigurando alberi scheletriti, fiori di papavero, argini verso sera, nebbie autunnali e fumosi interni di caffè, ma “caricandoli” di una forte notazione materica.

Grazie ad una “alchimistica” preparazione del fondo cupo e tenebroso, i personaggi dei suoi dipinti (eroi malinconici e talvolta drammatici) risaltano infatti sulla tela con evidenza quasi plastica, in virtù di un rilievo che molto si avvicina allo “stiacciato”.

Il paesaggio della campagna natia viene poi trasfigurato da una sensibilità attentissima ai valori emozionali della luce, che pare emergere dal buio e dalla bruma soprattutto per dar risalto dimensionale al soggetto e caricandosi altresì di significati etici, a loro modo mistici.

Quest’attributo di speranza filosoficamente inteso conferito dal valore della luce è ancor più evidente negli interni popolati da vecchi contadini, spesso adunati attorno ai tavoli tarlati d’osterie paesane (come il bar “Galletto” del racconto di Sitta, che nella realtà, almeno nominalmente, si trovava a Ferrara, in via Salinguerra e che era stato decorato da Silvan): le figure drammatiche, quasi “espressionistiche”, delle composizioni sembrano riscattate dalla loro miseria e solitudine grazie all’effetto luministico-spirituale.

Lo stesso sentimento si evidenzia nelle numerose opere grafiche, tracciate “con scioltezza, con padronanza del mestiere, ed eloquenti d’inquietudine nelle ombre nere, nei segni forti, nei contorni marcati”, in una efficace “ragnatela di linee spezzate”, come felicemente le definì la compianta studiosa centese Maria Censi.

Il discorso si carica di ulteriori motivazioni, ovvero di originali significati religiosi, nella serie delle Crocfissioni, in cui la figura di Gesù parte del recupero di suggestioni della pittura manierista e barocca per evidenziare le sofferenze dell’uomo contemporaneo: eliminato il senso di una oleografica “sacralità” e il sospetto di ogni bozzettismo, il Cristo di Tassi diviene efficace corrispondente morale degli operai, dei pensionati e dei contadini protagonisti delle composizioni più strettamente allegorico-sociali, quasi fratello e ispiratore della loro “lotta di classe”.

82103Tutte queste suggestioni furono espresse nel catalogo della mostra “I due Tassi” da me curata per conto del Comune di Bondeno nel maggio 1990, l’anno successivo al suo momentaneo trasferimento a Vigarano Pieve, lasciando la “mitica” abitazione di Scortichino, in cui erano andati a trovarlo Giorgio Bassani, Facco de Lagarda, Vittorio Sgarbi e dove lo scrittore Giancarlo Sitta era di casa.

Il titolo della antologica bondenese faceva riferimento ai dipinti di Gaetano e Carlo adunati assieme (e per la prima volta in assoluto) sulle pareti della “Casa Società Operaia”: il percorso figurativo comprendeva mezzo secolo, partendo dalle grafiche di taglio ancora ottocentesco del padre e arrestandosi alle belle composizioni dedicata all’inquinamento del figlio, con olmi, ginestre ed alberi quasi “sfatti” che non sarebbero spiaciuti a Mattioli.

All’inaugurazione fu commovente l’incontro con Walmen Munerati, madre di Carlo e che aveva posato per vari dipinti del marito tra il 1932 e il 1939.

Negli anni Novanta frequentai spesso la nuova casa di Vigarano assieme all’amico pittore-restauratore Antonio P. Torresi, chiamato da Carlo per sistemare quadri barocchi, ritratti ottocenteschi e pastelli divisionisti della sua collezione, opera di autori del livello di Caletti, Pagliarini, Previati e Longanesi.

Assieme a Torresi visitammo sue mostre personali a Finale Emilia, Argenta, Cento, Copparo, Bondeno e Ferrara, spesso criticamente presentate dal poeta Antonio Caggiano, i cui parenti avevano acquistato la suggestiva casa-studio di Scortichino.

Ricordo poi una piacevolissima gita in Brianza con Carlo e un comune sodale, per visitare una esposizione a Cantù e lo studio di una giovane pittrice.

Nel 1996 mi occupai poi di schedare opere dei “due Tassi” nel catalogo della civica Pinacoteca di Bondeno, appena eretta, incontrando la piena approvazione dell’amico artista.

All’inizio del XXI secolo Carlo Tassi era riuscito definitivamente a rientrare nell’amatissima Bondeno, abitando in una bella villa sulla via Virgiliana (ribattezzata “La Casa del Pittore”), mentre pose il suo ultimo studio in un delizioso appartamento retrostante la Chiesa Arcipretale, che gli permetteva – quasi proustianamente – di recuperare colori, odori e sapori dell’infanzia e della giovinezza, quelli dell’immediato dopoguerra, degli studi accademici, degli anni dell’amicizia con Cattabriga, della conoscenza con Mario Soldati, dell’esercizio della scultura.

In realtà il nostro pittore non aveva mai abbandonato del tutto la modellazione, seppure sui generis, come dimostra il fabbrile Crocifisso collocato sulla tomba del padre, scomparso nel giugno 1983.

Quando, vent’anni dopo, io e Torresi pubblicammo per incarico del Comune bondenese, un volume dedicato al cimitero e intitolato “La Certosa di Bondeno”, non potemmo inserire la scultura poiché ubicata all’esterno del quadriportico del monumentale camposanto, al contrario della cappella Costanzelli ornata di una decorazione murale di Carlo: e quest’ultimo si dolse per l’omissione con la moglie. Però non me lo disse mai, quasi avesse avuto paura di infastidirmi, di creare un’inutile polemica fra noi.

In trent’anni di amicizia non abbiamo litigato in alcun modo e anche per questo motivo non lo scorderò, come non dimenticherò i suoi ateliers vicini al fiume, gremiti di quadri e sculture, oggetti e strumenti… e lo sguardo da falchetto del padrone di casa, che si perdeva oltre l’orizzonte padano osservandolo dalle finestre per poi ricrearlo peculiarmente sulla tela.

Lucio Scardino